Nel 2012 quel gran provocatore di Maurizio Cattelan aveva scelto la Rotunda del Guggenheim di New York per snocciolare tutto (All era il titolo della mostra) il proprio repertorio di suggestioni per una nuova arte contemporanea: un Papa colpito a morte (La Nona Ora), un bambino inchiodato al banco di scuola (Charlie don’t surf), un grande cavallo imbalsamato (Novecento).

Per il 2020 quel raffinato intellettuale di Rem Koolhaas, da sempre impegnato nella ricerca di nuovi contenuti e di nuovi significati per l’architettura, ha invece deciso di mettere in scena, ancora una volta nella Rotunda del Guggenheim ma in modo meno invasivo, il nostro futuro prossimo venturo. Puntando però l’obiettivo non tanto sulle metropoli ma piuttosto sulla campagna. Continuando così sulla strada aperta della Triennale di Milano che nel 2019 avevano organizzato, proprio attorno alle problematiche dell’ambiente, quella mostra Broken Nature che a luglio approderà (fino a maggio 2021) al Moma.

Fuori, sul Central Park, un grande trattore e una serra (con tanto di luci psichedeliche) dove coltivare pomodori anticipano i temi di Countryside, The Future l’installazione-mostra, unica e immersiva, che si inaugura oggi (domani l’apertura al pubblico) e che fino al 14 agosto occuperà la Rotunda. Un progetto concepito da Troy Conrad Therrien, curatore del Guggenheim per architettura e digitale, con Rem Koolhaas e Samir Bantal, direttore di «Amo», il laboratorio di idee dell’Office for Metropolitan Architecture (quell’Oma fondato da Koolhaas negli anni Settanta).

Un progetto full-immersion che vuole esplorare le radicali trasformazioni dei territori rurali e remoti, qui collettivamente identificati come «campagna», lontani dalle città. Un progetto che miscela senza paura forme e linguaggi, antico e moderno, digitale e politica, arte classica (ma i vari Millet e Monet sono volutamente copie) e robot (progettati da Koolhaas & Co guardando persino a Malevic), compilation country (da Dolly Parton a Willi Nelson ma c’è anche Mina) e droni, Barbie in versione contadinella e la Rivoluzione russa.

Ma Countryside rappresenta anche la logica evoluzione della lunga partnership tra Lavazza (che non a caso aveva sponsorizzato Broken Nature) e il Guggenheim. Un modo, spiega Francesca Lavazza (dal 2016 nel Board of Trustees della Solomon R. Guggenheim Foundation), «per inseguire il sogno di un’arte non fine a sé stessa, ma responsabile, in grado di sensibilizzare le persone a cui si rivolge, ispirarle e muoverle a comportamenti sostenibili».

L’idea della mostra, spiega in anteprima Koolhaas al «Corriere», «è nata da una lunga ricerca su tutto ciò che non è città. Su una campagna vista come un colossale back-of-house, il retro di una casa organizzato con implacabile rigore cartesiano, con eserciti di computer che assicurano la perfetta conoscenza di ogni millimetro di terra, con armate di mietitrici e scienziati nucleari che scelgono di diventare contadini o allevatori di mucche».

Addio, dunque, all’idea di una campagna «solo» come luogo perfetto per arcadiche felicità alla Watteau o per immaginari straordinari alla Giorgione. Meglio, nell’ottica del Pritzker dell’Anno Duemila, ripensare la campagna come «un laboratorio dove le cose stanno cambiando molto più in fretta che nelle tanto celebrate metropoli ormai diventate semplici spazi di convivenza». D’altra parte, tra i tanti compiti dell’arte, ci dovrebbe essere anche quello di raccontare (più o meno inconsapevolmente) il presente e, se possibile, quello che sta per accadere: quando, ad esempio, nel 1565 Peter Brueghel il Vecchio dipinge l’Adorazione dei Magi non dipinge solo un inverno particolarmente gelido, ma anche (come racconta fino al primo marzo una mostra alla Collezione Oskar Reinhardt a Winterthur, Svizzera) l’inizio di quella Piccola Era glaciale che tra 1500 e 1800 avrebbe sconvolto il clima della Terra.

Più un laboratorio che un’esposizione. Che, sempre per Koolhaas «può contare su spazi molto ampi, pochi abitanti e, quindi, su quella estrema funzionalità perfetta per un luogo di ricerca e di innovazione tecnologica e sociale». Un luogo di incontro e dialogo tra specialisti di ambiti diversi in cui ognuno mette a disposizione l’espressione della propria disciplina per trovare idee, generare un confronto per immaginare e costruire il migliore futuro possibile. Un progetto globale nato da uno strettissimo rapporto con le università (Harvard, Pechino, Wageningen, Nairobi) che ha coinvolto per 10 anni 3 mila studenti e che guarda alla lezione della Land Art di Richard Long o dell’Environmental Art di Pedro Reyes, ma supera la divisione di genere (artistico) per includere filosofia, politica, antropologia, scienza, tecnologia, economia.

Qualcosa che, più che al passato, fa venire in mente il nostro «contemporaneo prossimo futuro». Qualcosa che può essere sempre e comunque pieno di poesia come uno dei «cerchi imperfetti» (di cemento, acciaio o ferro) con cui Mauro Staccioli aveva contaminato le campagne davanti alla «sua» Volterra. Qualcosa di cui si sentiva forse davvero bisogno: le prenotazioni per Countryside. the Future sono praticamente già sold out.

Il museo e il marchio

Il legame tra Lavazza e il Guggenheim inizia nel 2014 con di Italian Futurism, 1909–1944: Reconstructing the Universe. Da allora Lavazza ha sostenuto altre 5 mostre del museo, la più recente Artistic License: Six Takes on the Guggenheim Collection (2019). Mostre che, spiega Francesca Lavazza, credono «in un’arte che trae ispirazione dall’approccio multidisciplinare della ricerca nell’affrontare i problemi. Crediamo nella condivisione dei temi della sostenibilità, come accaduto con le campagne firmate da Steve McCurry, Platon, Ami Vitale, LaChapelle. Ma anche nell’impegno sociale». Lo stesso alla base di «TOward 2030. What Are You Doing?» che ha trasformato nel 2019 gli obiettivi delle Nazioni Unite in 17 opere di street art realizzate da 17 artisti in 17 zone di Torino.

Fonte: Corriere della Sera Leggi anche Roma omaggia Alberto Sordi: è boom di prenotazioni per la mostra del centenario
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