Massimo Carminati, un uomo: tre vite diverse
O forse semplicemente una sola vita, distinta in ben tre fasi differenti che hanno accompagnato ed evidenziato il carattere e la psiche di una persona che per molti è forse un mito, tanto da ispirare libri, film e serie Tv. Chi è Massimo Carminati? Forse una delle domande più difficili...
Partiamo dall'inizio
Nato il 31 maggio del 1958 a Milano e trasferitosi a Roma negli anni 70, insieme a tutta al sua famiglia, Massimo si avvicinò in gioventù agli ambienti dell'estrema destra fino a diventare esponente del gruppo eversivo d'ispirazione neofascista Nuclei Armati Rivoluzionari. Successivamente si è legato all'organizzazione mafiosa romana nota come Banda della Magliana per poi, frequentare gli ambienti dell'eversione politica e del crimine organizzato.
È stato arrestato nel dicembre 2014 nell'ambito dell'inchiesta Mafia Capitale e condannato in appello nel 2018 a 14 anni e sei mesi di reclusione; la condanna è stata poi annullata, con rinvio per la riformulazione della pena, nel giudizio in cassazione.
Il "Nero”
La Renault 5 azzurra si avvicinò al valico a fari spenti. Nel bagagliaio, una sacca con 25 milioni di lire in contanti e tre diamanti. All'interno dell'abitacolo, si indovinavano a malapena tre sagome scure. Tre camerati. Chi li aspettava nascosto nel buio, pensò che, forse, il momento fosse davvero arrivato. Quella notte, i poliziotti della Digos di Roma avrebbero chiuso la partita con quel che restava dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar), la sigla dell'eversione nera che, in quattro anni, si era macchiata del sangue di trentatré innocenti e cancellato (2 agosto 1980) le vite di ottantacinque tra donne, bambini, uomini nella strage alla stazione di Bologna. Sì, quella notte sarebbe stata la notte. O, almeno, di questo era convinto chi osservava quelle tre ombre nell'auto. Cercavano una donna e due uomini in fuga. Francesca Mambro, Giorgio Vale, Gilberto Cavallini. Quel che restava della testa dell'organizzazione dopo l'arresto di Valerio Fioravanti, "Giusva", il capo dei Nar, e il pentimento di suo fratello Cristiano.
Ma non sarebbe andata così.
Su quella Renault erano sì tre "neri". Ma di ben altro peso specifico. Sui sedili anteriori, Domenico Magnetta e Alfredo Graniti. Su quello posteriore, Massimo Carminati. Aveva solo 23 anni. Ma il cuore indurito di un vecchio. Perché aveva visto uccidere, perché aveva dimestichezza con il piombo e la violenza. E perché, avrebbe detto tredici anni dopo qualcuno che lo conosceva bene, Antonio Mancini, l'" Accattone" della Banda della Magliana, anche lui aveva dato la morte. " Fu Massimo Carminati a sparare a Mino Pecorelli insieme ad Angiolino il biondo (il mafioso siculo Michelangelo La Barbera, ndr.). Il delitto era servito alla Banda della Magliana per favorire la crescita del gruppo, favorendo entrature negli ambienti giudiziari, finanziari, romani. Quelli che detenevano il potere".
Carminati scappava, in quella notte di aprile. Da un mandato di cattura per partecipazione a banda armata. Il primo della sua vita. Da una storia, la sua, ancora acerba eppure già intrisa di violenza, che il Paese avrebbe conosciuto un po' alla volta. E mai fino in fondo.
Nella sua relazione di servizio, la Digos annotò che vennero esplose raffiche di mitra - oltre centoquaranta colpi - che investirono il fianco sinistro della Renault, risparmiando Magnetta e Graniti. Non Carminati. Un proiettile perforò uno dei finestrini e continuò la sua corsa verso il cranio di quel ragazzo. Gli entrò nell'orecchio e gli portò via l'occhio sinistro.
Sostiene oggi l'avvocato Giosué Naso che non andò così.
Che aspettavano proprio lui, quella notte. Il "ragazzino di Monteverde". Che doveva essere un'esecuzione utile a mettere a posto uno dei tanti doppi fondi di un Paese a sovranità limitata, intossicato da apparati dalla doppia obbedienza, non necessariamente repubblicana. "Ma quale conflitto a fuoco. Quella notte gli spararono in faccia mentre era armato di una patente falsa. Carminati scese dalla macchina con le braccia alzate. I poliziotti gli andarono di fronte e a bruciapelo gli spararono in faccia. Ecco come andarono le cose. Era caduto nel trabocchetto che gli aveva teso Cristiano Fioravanti. Si era pentito e aveva indicato ai camerati i passaggi per il valico del Gaggiolo, facendogli credere che non fosse controllato. In realtà, Cristiano Fioravanti parlava su indicazione degli agenti della Digos di Roma che si sarebbero fatti trovare là. E che gli avrebbero sparato. E sapete perché? Perché Massimo Carminati doveva morire. E sapete perché doveva morire? Perché doveva diventare, da morto, l'autore materiale della strage di Bologna. Questa è la verità. Quella vera. Se volete cercare rapporti equivoci con le Istituzioni e quant'altro, cercate in quella direzione".
Il Bandito
La notte dell'aprile 1981 in cui perde l'occhio sinistro e la libertà non è già più soltanto il Nero. Ma un'altra cosa. Perché la maschera del militante dell'eversione armata ha il suo reciproco nella tracotanza del bandito di strada. Nel più banale, forse, ma assai più concreto, "se pijamo Roma" della Banda che ha messo insieme Franco Giuseppucci. Il "Negro". "Libano", se si preferisce, o per chi avesse più dimestichezza con l'epica di Romanzo Criminale piuttosto che con gli atti dei processi di quel tempo lontano. Perché la Banda, la Banda della Magliana, se non altro, vive dell'equità della "stecca para", del bottino di rapine diviso in parti uguali. Di belle macchine, belle fiche, di rispetto e, soprattutto, di una montagna di grano. E non, come pretende qualche sacerdote dell'ortodossia nera, che a chi infila la testa in un passamontagna e una 7.65 nei jeans spetti un'elemosina, mentre il grosso della torta serva a finanziare l'Idea. Per carità, lui, Carminati, oggi la smoscia. In un album di famiglia da ragazzi della via Pal. "Io facevo politica.
Ma poi la politica ha smesso di essere politica ed è diventata criminalità politica. Perché c'era una guerra a bassa intensità. Prima con la Sinistra e poi con lo Stato. Il "Negro" era il Capo. Era l'unico vero della Banda della Magliana. Era un mio caro amico. Abitava davanti a casa mia. Ci conoscevamo da una vita. Lui ce rompeva er cazzo. Se pijiavamo per culo tutto il giorno. Me faceva: "E daje, vieni cò noi". E io: "Ma sai che cazzo me frega". Insomma, c'era un grande rapporto di amicizia e io conoscevo tutti gli altri. Quando l'hanno ammazzato m'è dispiaciuto. Insomma, ho avuto rapporti cò tutti 'sti altri cialtroni. Ma loro vendevano la droga e io la droga non l'ho mai venduta. Io schioppavo dieci banche al mese". "Sai che cazzo me ne frega", dunque. Sarà. Antonio Mancini, l'Accattone in quella Banda, la ricorda in un altro modo.
Oggi ha settant'anni, vive a Jesi, ha chiuso i conti con la giustizia penale e assiste disabili. "Carminati? Era un tipo taciturno. Sapeva parlare l'italiano. Era istruito. Mica uno sbruffone come quegli altri fascistelli dei fratelli Fioravanti. Renato De Pedis lo portava in palmo di mano. E non solo lui. Carminati era diventato l'armiere della Banda. Era l'unico del gruppo dei Testaccini che poteva entrare e uscire dal deposito di armi che avevamo nei sotterranei del ministero della Sanità all'Eur". Quello, tanto per dire, da cui sarebbe uscito il lotto di proiettili Gevelot utilizzati per uccidere Mino Pecorelli il 20 marzo 1979. Nonché uno dei due mitragliatori Mab che verranno ritrovati su un treno Taranto-Milano dove, per ordine degli allora ufficiali del Sismi (il Servizio segreto militare) Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, entrambi iscritti alla loggia P2, erano stati collocati per indirizzare le indagini sulle responsabilità della strage di Bologna verso una fantomatica, quanto artefatta, "pista estera". Già. "Sai che cazzo me ne frega". Può darsi. E può anche darsi che il 13 settembre del 1980, giorno in cui i Proietti, "il clan dei Pesciaroli" di Monteverde, ammazzarono Franco Giuseppucci, er Negro, Carminati "si dispiacque molto" e basta. Ma anche qui, Mancini ha altri ricordi. "Ero stato messo in squadra con Carminati. Dovevamo prendere vivo uno dei fratelli Proietti e torturarlo per farci dire come erano andate le cose con Giuseppucci. Non riuscimmo. Ma Carminati li inseguì per strada con la pistola in pugno". Per la cronaca: i due Proietti che avevano ammazzato in piazza San Cosimato il Negro finirono anche loro agli alberi pizzuti. Il 16 marzo del 1981, Maurizio, "Il Pescetto". Il 30 giugno del 1982, Ferdinando, il "Pugile". E chi del clan ebbe la fortuna di sopravvivere perse la voglia di coltivarne anche solo la memoria.
Il Boss 1987-2001
Se è vero che, in quella seconda metà degli anni '70, la Banda della Magliana è un'agenzia del crimine che un pezzo dello Stato e dei suoi apparati deviati utilizzano per i lavori sporchi, per l'indicibile, beh è esattamente allora che Massimo Carminati l'anfibio, il "Nero" e il "Bandito", afferra le chiavi della sua impunità. Getta le fondamenta su cui costruisce l'Epica che diventerà lo specchio del suo narcisismo. Acquisisce il carburante della forza di intimidazione che la semplice pronuncia del suo nome produce sul marciapiede e nei Palazzi. Non fosse altro perché nella grana di ricatti, di verità impronunciabili anche solo plausibili o immaginabili, l'allusione vale quanto e più di una minaccia. Soprattutto, le cambiali non possono non essere onorate. E lui, dunque, sono gli anni '80 e '90, attraversa le patrie galere con la strafottente leggerezza di chi è certo di non dovervi trascorrere un tempo poi così lungo. Nell'aprile del 1987 viene condannato in via definitiva a tre anni e mezzo di reclusione per la rapina alla filiale della Chase Manhattan Bank di Roma (27 novembre del 1979), di cui sconta le briciole. Grazie a due indulti e ad una "riconosciuta rieducazione". Nel 1988, a Milano, la Corte di Appello lo sfiora appena con otto mesi di reclusione per ricettazione. Coperti dall'indulto del 1991. In quello stesso anno, a Roma, prende un anno e sei mesi per rapina, detenzione e porto illegale di armi. Ma non ne sconta un giorno per l'indulto intervenuto nell'anno precedente.
È un uomo fortunato, Massimo Carminati. Non c'è che dire.
La giustizia, quando arriva, arriva tardi. Dopo un indulto, appunto. Ricorrente come i condoni fiscali ed edilizi. O a babbo morto. Quando i ricordi di chi lo accusa si fanno improvvisamente sfocati e le fonti di prova si scoprono friabili, il che aiuta la generosa tolleranza di chi lo giudica senza chiedersi mai come sia possibile che quel tipo con un solo occhio salti fuori ovunque. Succede con il maxi processo che, nel 1995, trascina nelle gabbie chi della Banda della Magliana (sessantanove imputati) ha fatto parte e le è sopravvissuto. Per Carminati, l'accusa chiede venticinque anni di reclusione per associazione mafiosa. Ne prende meno della metà: dieci. Che diventano sei anni e sei mesi in Appello, quando l'aggravante mafiosa cade. E lui, è il 2006, quando gli viene revocata anche la libertà vigilata, con quella pagina di storia può serenamente dire di aver dunque definitivamente chiuso. Nell'aprile del 1999, da imputato a piede libero, nell'aula bunker del carcere di Capanne, ascolta la pubblica accusa chiedere la sua condanna all'ergastolo quale esecutore materiale dell'omicidio di Mino Pecorelli.
A settembre di quell'anno, la Corte di Assise di Perugia lo assolve dall'accusa "per non aver commesso il fatto". Un anno dopo, dicembre del 2000, si libera anche del fantasma dell'omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, "Fausto e Iaio", due militanti della sinistra extraparlamentare uccisi a Milano il 18 marzo del 1978. Di quell'omicidio, alla fine di un'inchiesta durata soltanto 22 anni, è accusato di essere l'esecutore materiale insieme a due ex camerati. Claudio Bracci e Mario Corsi, detto "Marione". Un tipo che, quando l'aria si è fatta greve, ha svernato nell'esilio inglese dove negli anni '80 e '90 molti neri hanno trovato rifugio e impunità e che si è reinventato opinion maker, si fa per dire, nel mondo delle radio libere romane che campano di Roma, intesa come As Roma calcio, usando il microfono come un manganello. Anche per "Fausto e Iaio" viene assolto, come i suoi due compari. Perché è vero che gli indizi sono "significativi", ma restano pur sempre indizi che il tempo, un quarto di secolo, rende incapaci di farsi prova. Il 21 dicembre del 2001, poi, evapora anche il coinvolgimento nel depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna. La storia del Mab uscito dall'arsenale del ministero della Sanità. Per quella faccenda, è accusato di calunnia aggravata, detenzione e porto di armi clandestine ed esplosivi. Ebbene, la Corte di Assise di Appello di Bologna conclude che dalla prima debba essere assolto "perché il fatto non sussiste". E dalle seconde - sono passati ormai 20 anni - perché la prescrizione è arrivata prima di una sentenza definitiva.
Il Furto al Caveau
Si capisce, dunque, perché nell'estate del 1999 Carminati si rimetta al lavoro. Per ricostruire il suo capitale. Di denaro, da cui è ossessionato, e di ricatti. Nella notte tra il 16 e il 17 luglio, con una banda di scassinatori che conta anche qualche vecchio arnese della Magliana e, soprattutto, la complicità di quattro carabinieri addetti alla sorveglianza degli uffici giudiziari di Piazzale Clodio, svuota le cassette di sicurezza della filiale interna della Banca di Roma. Ma non tutte. Di 900 che ne conta il caveau, ne vengono aperte solo 147. Quelle scelte da Massimo Carminati e che Carminati ha annotato su un appunto che porta con sé. Spariscono almeno 18 miliardi tra valori contanti e gioielli. Una fortuna.
Spariscono, soprattutto, carte che in quelle cassette erano custodite. E che appartengono a magistrati (se ne contano ventidue), avvocati (cinquantacinque), cancellieri (cinque), oltre a dipendenti del tribunale (diciassette), imprenditori, liberi professionisti. E di cui nessuno, curiosamente, si affanna a chiedere o chiederà mai conto. Né nella fase delle indagini preliminari, né in quella del processo quando, una volta accertati i responsabili, non una delle vittime del furto si costituirà parte civile. E per una sola plausibile ragione. Che non si chiede conto di qualcosa di cui è meglio si ignori l'esistenza o di cui si farebbe fatica a giustificare la provenienza. "Ma quale lista? Ma quale ricatto? Furono aperte solo le cassette di sicurezza che non reggevano al primo impatto. Banalmente, chi fece la rapina aveva fretta. Non c'era tempo per aprirle tutte", ricostruisce l'avvocato Giosué Naso raccontando quel colpo come una scampagnata, per altro funestata da un cambio di programma - "Il piano prevedeva di svuotare l'agenzia interna della Corte di Cassazione e si ripiegò sugli uffici del tribunale, perché lì i turni di guardia, almeno quelli in programma, consentivano di avere più tempo. Cosa che per altro poi non si verificò " - e di cui, soprattutto, non si comprenderebbe la suggestione.
"Vogliamo forse dire che tra i derubati vi fossero persone che consentono di avere il sospetto che si trattasse di uomini ricattabili o che custodissero segreti inconfessabili? Vogliamo forse dire questo di quel galantuomo che sarebbe stato il futuro presidente della Corte Costituzionale, Giorgio Lattanzi? O dell'ex commissario antimafia Domenico Sica? Vogliamo scherzare?". Nessuno ha voglia di metterla all'ingrosso, né di scherzare. Sicuramente non ne aveva Massimo Carminati. Sicuramente non lo presero come uno scherzo alcune delle vittime di quel furto. Magistrati come Orazio Savia, per dirne una, ex pm che nel 1997 sarebbe stato arrestato e condannato per corruzione. E forse neppure lo stesso Sica. Che fu, certo, Commissario antimafia, ma anche il magistrato che scippò l'indagine P2 alla Procura di Milano per condurla sul binario morto degli uffici giudiziari di Roma. Il "Porto delle nebbie", come era stato ribattezzato per lustri. L'approdo sicuro, la stanza di compensazione, che godeva di un "rito alternativo", non scritto, compatibile con le alchimie del Potere. E che aveva visto amministrare giustizia magistrati come Claudio Vitalone, pm dal 1966 al 1979, quindi sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello, creatura di Giulio Andreotti, con cui avrebbe condiviso, da deputato, l'appartenenza alla Dc e, da imputato, il processo per l'omicidio Pecorelli. Da cui, come Andreotti e come Carminati, sarebbe uscito assolto.
I tre mondi
È un fatto che il processo per i responsabili del colpo al caveau, a cominciare da Carminati, il suo architetto, abbia una curiosa parabola. Si celebra a Perugia, tribunale competente perché tra le vittime del reato figurano appunto magistrati del distretto di Corte di Appello di Roma. Ma qui, molti testimoni smarriscono la memoria. Il principale e unico reo confesso, il "cassettaro" Vincenzo Facchini, si rifiuta di fare persino il nome di Carminati. "Ma che domande mi fa? Lei mi vuole forse far mettere la testa sulla ghigliottina", dice allora al giovanissimo pm Mario Palazzi che lo interroga. Per giunta, per almeno un mese, i carabinieri effettuano indagini sui responsabili del furto lasciando all'oscuro i pubblici ministeri. E per ragioni che non verranno mai chiarite in nessuna sede. La storia finisce, dunque, come è scritto che finisca. E come, in un recente libro (La Lista: il ricatto alla Repubblica di Massimo Carminati, Rizzoli), ha ricostruito nel dettaglio Lirio Abbate. Il 2 aprile del 2005, Massimo Carminati viene condannato a quattro anni di reclusione. Sentenza che diventa definitiva nell'aprile del 2010 e che di fatto viene cancellata dall'indulto votato l'anno successivo dal Parlamento. Carminati salda i conti con sei mesi di affidamento in prova ai servizi sociali. Nel 2012, la sua pena è estinta. Una nuova vita può cominciare.
Nel 2012, l'aria che Massimo Carminati respira da uomo liberato dalla sua ultima coda giudiziaria, deve apparirgli luminosa, frizzante. È "un bell'incensurato", dice. Gli hanno restituito il passaporto. Può viaggiare. E andare a Londra "per incontrare vecchi amici che non vedevo da secoli". Non ha nemmeno sessant'anni ed è pronto per la sua terza vita. Che è la sintesi sublime delle prime due. Con il vantaggio della maturità, del prestigio del Capo, del disincanto. Che oscilla incessantemente tra cinismo e narcisismo. Che gli consente di guardare dritto negli occhi campioni delle nuove e vecchie mafie, come il boss di Camorra Michele Senese, un altro che la galera, dove pure dovrebbe stare, non sa cosa sia. Il '900 è finito e ha divorziato dall'Idea, Massimo Carminati. E anche dall'obbligo di sporcarsi le mani. Perché qualcun altro lo fa per lui.
Ma non ha mollato la strada, né deroga dalle sue regole ferree. Coltiva piuttosto l'ambizione canuta di immaginare una vita diversa per suo figlio, e un reimpiego dei soldi che ragionevolmente nasconde in Inghilterra, investiti nel mattone e garantiti da vecchi camerati che da quel Paese non sono più tornati. Ha soprattutto un patrimonio di relazioni, quello dei "vent'anni", della sua prima vita, da spendere. Perché i camerati di allora non si sono soltanto fatti vecchi come lui. Hanno camminato e rimontato il vento della Storia. Sono usciti dalle "fogne". E il purgatorio del post-fascismo è stata tutto sommato una passeggiata. Come indossare le grisaglie del Potere. Le porte del governo del Paese si sono aperte presto, molto prima di quanto potesse immaginare. E ora sono lì, con le leve del comando strette tra le mani. Nelle grandi aziende di Stato, come Finmeccanica. Nel governo della Capitale e del Paese.
Quindi ora tocca a lui. Anche a lui. Che ha un vantaggio. Non potranno negargli una sedia al tavolo imbandito.
Perché ha diritto a sfamarsi quanto gli altri. E soprattutto perché lui ha afferrato prima degli altri la regola millenaria che governa le cose degli uomini. Sicuramente quelle di Roma. Dalla notte dei tempi.
La parabola dei tre Mondi.
Non fosse altro perché di uno di quei mondi, il più importante, è padrone. "Ci stanno i vivi sopra, e i morti sotto. E poi ci siamo noi, che stiamo nel mezzo. Un mondo in cui tutti si incontrano. E tu dici: "Cazzo, com'è possibile che quello... Che un domani io posso stare a cena con Berlusconi.... Capito? Il Mondo di Mezzo è quello dove tutto si incontra... Si incontrano tutti là... Allora, nel Mezzo, anche la persona che è nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non può fare nessuno... E tutto si mischia".
L'assunto ha un corollario.
"Noi dobbiamo intervenire prima. Non si può fare più come una volta. Che noi arriviamo e facciamo i recuperi. A noi non ci interessa più. Cioè, questi devono essere nostri esecutori... Devono lavorare per noi. Deve essere un rapporto paritario. Dall'amicizia deve nascere un discorso che facciamo affari insieme. Perché tanto, nella strada, comandiamo sempre noi. Non comanderà mai uno come loro sulla strada. Avranno sempre bisogno di me".
È un esito
Quello di Massimo Carminati, che suggerisce a Otello Lupacchini, magistrato, giudice istruttore del processo al Banda della Magliana, considerazioni dotte e insieme fulminanti.
Per Massimo Carminati, ogni attività viene ridotta a pura e semplice agenzia di servizi, finalizzata a implementare le reti clientelari che sono la vera fonte dell'arricchimento speculativo". Dall'Agenzia del Crimine a quella di Servizi. In una coerenza che non ha smarrito per strada la forza dell'intimidazione.
Il nuovo Pantheon
Nel nuovo Pantheon di Massimo Carminati non c'è dunque bisogno - e non c'è spazio, soprattutto - per figure eroiche. Il Mondo di Mezzo non chiede né Epica, né il nichilismo dell'Idea. Al contrario. Chiede mani svelte, furbizia, menzogna, ferocia. Chiede un tipo come Salvatore Buzzi. Il "Rosso", si fa per dire. Assassino riabilitato. Esempio luminoso di una Giustizia e di un carcere che recupera e non affida a una discarica. Un insostenibile logorroico, spesso petulante, millantatore, pecora con i lupi e lupo con le pecore. Campione, con la sua cooperativa sociale XXIX Giugno, di un terzo settore senza il quale il welfare del nostro tempo e delle nostre città va a sbattere. Alloggi e assistenza ai migranti. Campi Rom. Servizio di manutenzione dei giardini, assistenza ai disabili. "Un business che rende più della droga".
Quella che Carminati non tocca.
Ma con cui, se capita, Carminati fa felice qualche amico che ci lavora, che se la pippa o che semplicemente ci guadagna. Il rapporto tra il "Rosso" e il "Nero" è impari. E non soltanto perché Buzzi è un debole, un adulatore, un cane pastore che si crede furbissimo, ma furbissimo non è. E che sempre di un padrone ha bisogno, Massimo Carminati. Ma perché nel vincolo tra i due è scritto il codice genetico di Mafia Capitale. La sua ragione sociale. L'uno, Buzzi, mette lavoro, capitale umano e finanziario, vent'anni di commesse all'ombra di antichi padrini politici che non contano più come un tempo, fondi neri per ungere le ruote di una politica vorace e di un'amministrazione pubblica tanto fradicia quanto miserabile nelle sue richieste pitocche (un'assunzione in cooperativa, un appartamentino, un posto da impiegati allo zoo comunale) e che, per giunta, vorrebbe continuare a "mungere la mucca" (Buzzi) senza "farla magna'". L'altro, Carminati, mette il peso del suo nome. Quello che evoca e che può muovere sulla strada. La sua rete di relazioni. I camerati che non gli possono dire di "no". E che a Buzzi servono come l'aria, se non vuole morire annaspando. Se vuole lavorare.
"Quattro ladri di polli che sparavano cazzate ai tavolini di un bar", dice l'avvocato Giosué Naso. "La Mafia del benzinaro" di Corso Francia, chiosa sarcastico lui, Carminati. Che aggiunge: "Io sono solo un vecchio fascista degli anni '70. Contento di esserlo. Perché noi, quelli della comunità degli anni '70, la pensavamo in un certo modo e continuiamo a pensarla allo stesso modo. Non accannare la gente in mezzo alla strada. Non accannare gli amici. Sono i valori di quando eravamo ragazzi e sono i migliori che ci sono rimasti". Chi sa cosa ne pensa Riccardo Mancini. Il "camerata Mancini". Compagno di batterie e di rapine nei "magnifici '70", è il primo alla cui porta bussa il riabilitato Carminati dopo essersi liberato della seccatura della condanna per il caveau. Lo deve far lavorare. E farlo lavorare significa saldare le pendenze con la cooperativa di Buzzi, che ora è suo "socio". Non è un piacere quello che chiede. È un ordine. Perché lui, Mancini, può far credere al mondo intero quello che vuole. Magari di essere diverso soltanto perché è stato la tasca di Gianni Alemanno, nuovo sindaco di Roma, e con Alemanno è arrivato in Paradiso. Tesoriere della Fondazione Nuova Italia, amministratore delegato dell'ente Eur spa.
Ma lui sa bene che non è mai cambiato.
Che è rimasto quello dei 20 anni. Un tipo che bussa a quattrini per l'appalto cui la Breda Menarini concorre per la fornitura di filobus. E, soprattutto, che sa che a Massimo "no" non glielo dici. Altrimenti, quello, "ti fa strillare come un'aquila". Riccardo Mancini, Salvatore Buzzi. E non solo.
Nel Pantheon della terza vita
Massimo Carminati incrocia un variopinto campionario di tipi umani. Sono tutti "amici", dicono di loro. "Si vogliono bene", e chi sa se davvero lo hanno mai pensato. Sul proscenio di Mafia Capitale: Riccardo Brugia, Franco Testa, Luca Gramazio, Franco Panzironi, Luca Odevaine, Roberto Lacopo, Matteo Calvio. Qui nessuno si muove per nulla. E ce ne deve essere per tutti. Perché, e questo lo dice quel saggio di Buzzi, "una mano lava l'altra e due lavano il viso".
L'imputato
Per due anni, dall'isolamento del 41 bis del carcere di Parma, Massimo Carminati, nella presenza silenziosa in video-collegamento con l'aula bunker del carcere di Rebibbia, ha parlato solo il linguaggio del corpo. Una silhouette nera. A tratti sfocata. Ora seduta. Ora impegnata nell'ossessivo e disperato andirivieni dei detenuti, di ogni detenuto, negli spazi angusti. Una gabbia, o la sala dei collegamenti. Doveva sciogliere un'alternativa del diavolo. Tacere. Tenendo fede al mito costruito in trent'anni. O sciogliersi in un fiume di parole. Posare da Padrino, consegnandosi definitivamente al suo mito. O contorcersi da guitto, in una aggiornata "Febbre da Cavallo".
Ha scelto di parlare per due giorni interi rimanendo tuttavia prigioniero in quel guado. Un po' Padrino. Un po' guitto. Raramente sincero (solo lì dove non aveva davvero nulla da perdere), spesso posticcio. Anche a costo di suonare svampito. Con un effetto. Apparire improvvisamente vecchio. Ingiallito. Non per questo innocuo. Collerico e vanaglorioso. In una recita della romanità che vuole i figli dell'urbe fanfaroni, chiacchieroni, spesso "cazzari". Sarcastici e feroci. Ma non "diversi", come forse lui avrebbe voluto, immaginando che il criterio "geografico" si traduca in un principio di eccezione nell'interpretazione e applicazione del codice penale.
"Questo esame lo sto facendo perché me lo avete chiesto voi. Mi avete così perseguitato... Che se fosse stato per me non lo avrei mai fatto. E quindi, se mi scappa la frizione, avvocato, mi fermi. Ci pensi lei". In quei due giorni, Massimo Carminati ha soprattutto posato a vittima. Si è detto prigioniero di una macchinazione giornalistica, giudiziaria, letteraria, cinematografica, che gli avrebbe cucito addosso un abito non suo. Una presunzione di colpevolezza incostituzionale. In forza di un mito e un'epica con cui non avrebbe nulla a che vedere. "Una cosa ridicola. Magari fossi il Samurai del libro Suburra. Che mo' Netflix ci fa pure la serie. La katana che mi hanno regalato e che mi hanno sequestrato quando mi hanno arrestato me l'avevano regalata per prendermi per il culo dopo che era uscito il libro. Non era una vera spada da Samurai. Serviva per sfilettare il tonno".
Tutto e il contrario di tutto
"Hanno scritto su di me che sono stato il killer della P2, il killer dei Servizi. Che sono stato tutto e il contrario di tutto. Che sono stato qualunque cosa. Dalla strage di Bologna a qualunque cosa. Tutto quello che mi potevano accollare me l'hanno accollato". Al punto da immaginare una fine che cancelli ogni traccia fisica di sé, quando sarà il momento di congedarsi da questo mondo. "Tanto mi faccio cremare. Mi faccio buttare nel cesso. Lascio in giro soltanto un pollice. Sì, voglio lascià in giro solo quello. Un pollice. Così, dopo che sono morto, fanno qualche ditata su qualche rapina. Su qualche reato. E così dicono che sono ancora vivo. Tanto a me non mi frega un cazzo della vita". Quella che è cominciata ieri. La quarta. E che si annuncia molto diversa dalle altre.
Roma 20 luglio 2017 - Aula bunker del carcere di Rebibbia
"In nome del popolo italiano, il Tribunale, ritenuta la sussistenza di due distinte associazioni.... Esclusa l'aggravante mafiosa di cui all'articolo 7.... Dichiara Carminati Massimo colpevole dei reati di cui ai capi di imputazione.... E lo condanna ad anni 20 di reclusione e 14 mila euro di multa...".
L'accusa di mafia era caduta.
I 28 anni e sei mesi chiesti dalla pubblica accusa si riducevano di un terzo. La silhouette nera in video collegamento dal carcere di Parma non mosse un muscolo. Poi, conclusa la lettura del dispositivo, sul banco della difesa squillò il telefono che collegava agli imputati in ascolto dalle carceri esterne. L'avvocato Ippolita Naso sollevò il ricevitore. "Massimo, Massimo, eccomi. E allora? Hai capito? Niente mafia. Niente mafia!".
Niente mafia!". (Repubblica)
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