A Scampia va giù il simbolo di Gomorra: giornata storia per Napoli
Stasera, con le prime ombre del tramonto, sotto la Vela verde a Scampia ci sarà una danza di liberazione: un concerto neomelodico come di ringraziamento, l'ultimo saluto, l'addio del quartiere, una commemorazione. Un funerale antico, un sabba, chissà se comparirà anche un fuoco per ripulire la memoria.
Cantanti del rione, come Luciano Caldore, che in quella Vela ci ha vissuto vent'anni e ci lascia lacrime e ricordi. O Franco Ricciardi, che scandendo uno-sei-sette ha costruito il sound amaro delle 167. Nel pomeriggio, poco prima del concerto, una serie di comitati popolari saluteranno l'abbattimento come il grande risultato di una lotta.
LA BATTAGLIA DEL TOGLIERE
Buttare giù la vela, qui, non è semplicemente demolire un palazzo. È abbattere il totem. Spezzare le gambe al male. Come un nevrotico si libera di un complesso dopo anni di analisi, questo quartiere ha caricato per decenni su queste quattro pietre mangiate dal degrado tutto il significato simbolico dello smarrimento, e oggi, mentre il braccio di una gru comincia a mangiare il primo boccone del palazzo, per divorarlo in venti giorni, spera davvero che da una morte brilli una rinascita, come se questa demolizione fosse una potatura di un ramo secco, e lasciasse libero il fiore di aprirsi, finalmente. Ma è proprio così? Qualcuno, sul versante istituzionale, si è spinto addirittura oltre, costruendo strane simmetrie tra la Vela e la camorra. Smantellando il mostro si dà un colpo ai clan, ha detto qualcuno. Ma davvero?
L'ERRORE
In realtà, i frammenti del discorso amoroso sulla Vela che cade raccontano oggi più una sconfitta che una vittoria. Ma le feste, si sa, non sono un momento critico. È giornata di liberazione. Viene giù la terrazza di Gomorra, il riparo della (ex) piazza di spaccio più grande d'Europa, il palcoscenico di una faida che tra il 2004 e il 2012 ha fatto 128 morti. E quindi, come si fa nei riti religiosi dove la risata si alterna alla lacrima, oggi si festeggia amaro. La Vela verde è la terza che cade. Erano sette, la prima - la F - è stata demolita nel dicembre del 1997, 23 anni fa. L'esplosivo la fece implodere a metà, ci vollero mesi di demolizioni successive. La seconda - la G - nel Duemila. La terza - la H - nel 2003. Sembrava un processo rapido e preciso. Nuove palazzine popolari, il trasferimento delle famiglie (per ogni Vela, almeno 250), l'abbattimento dell'edificio prima che qualcun altro, dentro una frenetica corsa disperata a costruire diritti, occupasse gli alloggi e poi appresso, all'edificio successivo. Ma il treno a un certo punto si è fermato.
Blocco dei fondi, ritardi burocratici. Sembrava che quei palazzi con la forma del Vesuvio vendessero cara la pelle. Il Restart Scampia, ambizioso progetto partito addirittura con l'allora presidente della Repubblica Scalfaro, si era trasformato in una nuova attesa. Sono così rimasti in piedi per altri 17 anni quattro serpentoni di cemento, continuando a mostrare al mondo una immagine simbolo inquietante, corridoi bui dove gocciola sempre qualcosa, balconcini laceri, e gli immancabili striscioni automotivazionali come una voce di dentro, stesi sul degrado, ad ammonire che Scampia non è Gomorra. Il canto e il controcanto.
(IlMattino)