Raffaele La Capria, che se n’è andato a quasi cento anni, è stato uno scrittore e un intellettuale di sapienza raffinata eppure mai esibita. In un saggio uscito nel 2001, Lo stile dell'anatra, sosteneva che, al pari del palmipede che senza sforzo apparente fila sul pelo dell'acqua, mentre sotto agita tumultuosamente le zampette, così la scrittura e anche il pensiero dovrebbero procedere senza frenesie e singhiozzi, senza lasciarsi prendere dalla foga e scansando ogni forma d’artificio.
La sua era evidentemente un'aspirazione letteraria, ma anche una predilezione intellettuale e di vita: lo stile dell'anatra, scriveva La Capria, è quello che «non si lascia trasportare dalla corrente che scorre lungo tutto il secolo breve e lo caratterizza in modo particolare ed eccessivo privilegiando gli "stili dell'estremismo" (l'espressione è di Alfonso Berardinelli, ndr), ma risale verso la sorgente, dove l'acqua è più chiara e meno turbata».
Moltissimo del La Capria romanziere e uomo è contenuto in queste parole: l’eleganza mai ricercata del parlare, la mitezza dell’argomentare, condita da un’ironia che scorreva limpidamente nel suo eloquio, il rifiuto di apparire, di presenziare, il disdegno per l’eccesso.
La Capria e Napoli
Nel suo essere napoletano La Capria si è mantenuto al riparo da ogni tentazione rivendicativa o autoconsolatoria. Eppure un fluido sottile e intenso, generato dalla città d’origine, scorre in tutta la sua produzione. Nei luoghi (il palazzo Donn’Anna, a Posillipo), nelle metafore (“la bella giornata”). Nelle battaglie civili: è sua la sceneggiatura del film Le mani sulla città di Francesco Rosi, amico dal liceo (gli altri suoi compagni di scuola sono Peppino Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Francesco Compagna, e il più giovane Giorgio Napolitano). E dedicate alla sua città sono anche alcune riflessioni pacatamente storico-culturali.
Di Napoli La Capria parla in
L'armonia perduta (1986), seguendo un delicato filo di sutura fra memoria e immaginazione, storia e letteratura. Napoli è una "città incompiuta" che ha smarrito la propria armonia dopo la strage dei patrioti che nel sangue concluse la Rivoluzione giacobina del 1799. Tesi ricorrente in molta letteratura. Che però La Capria aggiorna con un rilievo antropologico. Dalla tragedia e dal martirio si è proceduto con un simulacro di quell'armonia, la napoletanità, una costruzione artificiale che si proponeva, sotto forma di finzione e di recita, di replicare la sublime, ma immalinconita consonanza fra uomo e natura.
La canzone fine Ottocento, primi Novecento ne è un vessillo
Un succedaneo più falsamente popolaresco è invece la napoletaneria, priva persino del garbo e del disincanto della napoletanità. È come se, agli occhi di La Capria, la storia di Napoli si fosse incagliata nella frattura fra l'intellettualità e la plebe, una frattura per niente sanata se, duecento anni dopo, celebrando al Teatro San Carlo con un'opera lirica una delle protagoniste della rivoluzione, Eleonora Pimentel Fonseca, un gruppo di persone (l'episodio è raccontato da La Capria) accoglieva il pubblico inalberando gigli borbonici e urlando «Puttana, puttana», come se la Pimentel fosse ancora lì con il suo carico di passioni e illusioni.
Lo stile - lo stile dell’anatra - è sostanza
Per La Capria è disposizione mentale, è linearità di scrittura che si accompagna a una limpidità del pensiero che mette al bando il tono declamatorio e risentito. Il suo procedimento è letterario anche quando si misura con un altro dei temi in cui l’essere napoletano condiziona il pensiero: l’identità. «Parole come padano o vesuviano, celtico o mediterraneo in me suscitano l'impellente desiderio di disidentificarmi, di farmi cittadino del mondo», scrive il napoletano La Capria in La mosca nella bottiglia (1996), sapendo che su di lui incombe, come su tutti i suoi concittadini, un’identità che la storia ha spesso mostrato nel suo aspetto più invadente. L’identità è virtuosa quando è contemporaneamente forte e aperta, dotata di senso e discreta, intensa e disponibile allo scambio.(Repubblica)
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