Il miglior modo per tenere in vita la figura e l'esempio di Kobe Bryant è ricordarne i gesti più belli, perché una persona non muore mai fino a quando resta nel cuore di chi la ama davvero. Non le prodezze fatte in campo, con la palla a spicchi tra le dita e un talento endemico da leggenda, ma i gesti comuni, della "persona normale", quelli che contribuiscono a far sì che l'uomo non finisca nel cono d'ombra del campione. Kristen O’Connor Hecht, la moglie dell'ex direttore delle partnership aziendali di Phoenix Suns Tom Hecht, ha raccontato in un lungo post su Facebook una bella storia per commemorare l'ex stella della NBA morta nell'incedente in elicottero assieme alla figlia, Gianna Maria. Cosa è stato "Black Mamba" nella vita di tutti i giorni, lontano dai riflettori e dal campo, lo spiega la donna che anni fa lavorava al St. Joseph's Hospital and Medical Center di Phoenix. Fu allora che ebbe le possibilità di conoscere Kobe Bryant, si materializzò come un personaggio da favola e lo fece per una buona causa. Un cardiologo con il quale Kristen collaborava le chiese se fosse stato possibile avere un pallone da basket firmato dai Lakers per un giovane tifoso che si chiamava Kobe. Il ragazzo era gravemente malato e ricoverato da tempo in ospedale. La sua vita era segnata: nessuna cura lo avrebbe salvato, nessuna terapia lo avrebbe mai aiutato a guarire, né il suo fisico era forte abbastanza per affrontare un trapianto. Il passaparola del desiderio arrivò fino all'orecchio di Bryant e non ci pensò due volte, sapeva benissimo quale fosse la cosa più giusta da fare. Organizzò una visita in ospedale in gran segreto e si recò da quel bimbo tenuto in vita dalle macchine, dal cuore troppo debole perché battesse da solo. "Ciao Kobe…". La madre, che era lì accanto a lui, per la prima volta vide negli occhi del piccolo quel raggio di felicità, quella luce spenta dalla malattia e provata dalla sofferenza. Kobe e Kobe palleggiarono un po' assieme: il campione e il bambino, l'uno di fronte all'altro. L'uno accanto all'altro sorridenti nelle foto tra gadget, divise e quant'altro potesse far contenta quella creatura. Bryant, però, non si limitò a trascorrere qualche ora col piccolo. Prima di andar via, chiese alla signora Kristen O’Connor come poteva aiutare in qualche modo quel bimbo che sarebbe morto una settimana dopo la visita del campione. È un problema di soldi? Perché mi posso prendere cura io di tutto quanto – si legge nel racconto su Facebook della donna -. Purtroppo non lo era: il piccolo aveva un difetto al cuore ed era troppo malato per sottoporsi a un'operazione molto delicata e difficile come un trapianto. Ero sinceramente sorpresa dalla sua sincerità e dalla sua generosa offerta, dalla dolcezza e dal calore che aveva dimostrato. Il piccolo Kobe morì la settimana successiva. Circa tre settimane più tardi, ricevetti una lettera dalla madre del bimbo in cui mi descriveva la forza di quei momenti. Mi disse che erano stati i momenti più felici dell’intera vita di suo figlio. Il racconto di Kristen O’Connor si conclude con un'altra piccola rivelazione: i manager di Kobe Bryant le spiegarono che faceva cose del genere spesso e ovunque andasse ma non voleva che fosse data pubblicità alle sue azioni. Da quel giorno in poi è diventato il mio eroe, e ogni volta che qualcuno mi diceva che non apprezzava Kobe Bryant, io gli rispondevo "lasciami raccontare una storia…”. Possa la luce eterna di Dio illuminare per sempre la tua anima, Kobe. Fonte: https://www.fanpage.it/

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