Coronavirus, ci si può ammalare due volte. Un team di ricerca di Hong Kong ha documentato il primo caso confermato di reinfezione da coronavirus:
"Un paziente giovane e apparentemente in salute ha avuto un secondo caso di covid-19 diagnosticato 4 mesi e mezzo dopo il primo episodio", hanno dichiarato i ricercatori dell'università di Hong Kong in un comunicato.
Ma già lo scorso luglio
Un team di ricercatori italiani lanciò l'allarme. Il Fatto Quotidiano scriveva infatti che "hi ha già contratto il coronavirus potrebbe non solo ammalarsi di nuovo, ma addirittura presentare sintomi più gravi.
Mentre i centri di ricerca di tutto il mondo continuano gli studi per produrre una cura o un vaccino, l’ipotesi avanzata da sette esperti italiani e pubblicata sulla rivista scientifica BMJ Global Health, se confermata, potrebbe cambiare completamente l’approccio di ricercatori e medici alla cura e alla prevenzione del Covid-19.
Lo studio, realizzato da un gruppo di ricercatori guidato da Luca Cegolon, medico epidemiologo presso l’Ausl 2 Marca Trevigiana di Treviso, si concentra proprio sul tema dell’immunizzazione di un individuo dopo aver contratto il nuovo virus.
In particolare, l’aspetto da definire è la durata degli anticorpi e se questi diano alla persona un’immunità permanente dopo il primo contagio.
Gli scienziati italiani
Hanno formulato la propria ipotesi basandosi sulle caratteristiche fino ad oggi conosciute del Sars-Cov-2.
Proprio analizzando i coronavirus umani, famiglia alla quale appartiene il Sars-Cov-2, gli scienziati hanno rilevato che quattro dei sette ceppi conosciuti creano sindromi respiratorie lievi e tutti causano re-infezioni, indipendentemente dall’immunità umorale che si acquisisce dopo essere guariti dalla malattia.
In caso quindi di seconda ondata, chi ha già contratto il virus potrebbe ammalarsi di nuovo e in forma più grave.
Oltre alle caratteristiche simili di Sars-Cov-2 e Sars-Cov e Mers-Cov
Gli scienziati hanno anche rilevato che tale meccanismo presenta caratteristiche molto simili al quadro clinico dei casi critici di Covid-19.
Polmonite interstiziale con sindrome da distress respiratorio acuto (Ards), linfopenia, aumento dei neutrofili, tempesta di citochine, forte riduzione dell’interferone.
“Le analogie – ha spiegato Cegolon, parlando a Repubblica – sono molte, come dimostra la diminuzione dei livelli dell’interferone, che serve a difenderci dalle infezioni, e dei linfociti.
Mentre aumentano i fagociti, che sono responsabili di un quadro polmonare gravemente compromesso e caratterizzato da una tempesta di citochine”.
Ma l’ipotesi degli scienziati italiani potrà eventualmente avere conferme su larga scala solo in caso di una seconda ondata, che esporrebbe di nuovo al virus persone già risultate positive in questa prima parte del 2020.
L’ipotesi del team italiano apre a una prospettiva preoccupante.
“Per nessun coronavirus – continua Cegolon – è mai stato possibile produrre e commercializzare un vaccino efficace.
Questo perché il meccanismo che ne ha impedito la produzione fino ad ora non è ancora chiaro:
“Ma sicuramente l’immunità umorale – conclude il ricercatore –, cioè gli anticorpi prodotti in seguito a una prima infezione, non sembrano avere un ruolo protettivo.
E infatti i coronavirus sono noti per causare re-infezioni, indipendentemente dall’immunità acquisita”.
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