PAVIA -«So di non fare un’affermazione scientifica, ma la verità è che per sconfiggere un nemico nuovo e sconosciuto abbiamo bisogno anche di una somma insondabile di coincidenze positive. Detto in due parole, augurate a noi medici e agli scienziati buona fortuna». Raffaele Bruno, 53 anni di Cosenza, da una settimana guida «la missione più difficile in corso in Europa»: salvare la vita a Mattia, oltre che a centinaia di persone colpite come lui dal coronavirus nel Basso Lodigiano. Il «contagiato italiano che non deve morire», 38 anni di Castiglione d’Adda, è il «paziente uno» trovato a Codogno. È lui che ha involontariamente sollevato il velo sul focolaio principale dell’epidemia in Italia. Per questo nel reparto di malattie infettive del policlinico San Matteo di Pavia, diretto da Bruno, da venerdì 21 febbraio lottano giorno e notte oltre trenta medici, infermieri e specializzandi. Due piani sotto la stessa palazzina, nell’interrato, altri quaranta tra medici, tecnici e ricercatori studiano senza sosta centinaia di tamponi al giorno. Tutti quelli provenienti dalla zona rossa lombarda del coronavirus, ma pure da Cremona, Bergamo e Brescia. Questa è la task force di Fausto Baldanti, 56 anni di Piacenza, direttore della scuola di virologia molecolare. Anche la sua missione, dopo aver co-scoperto il primo Covid-19 italiano, non ha precedenti: «Dobbiamo trovare, seguire e controllare l’infezione — dice — per diagnosticarla, o poterla escludere tra chi viene sottoposto ai test». Agli oltre settanta componenti delle équipe di Bruno e Baldanti, non è stata affidata solo l’impresa estrema di salvare il dirigente dell’Unilever a Casalpusterlengo. Ogni vita ha lo stesso valore e gli scienziati, in Lombardia e nelle altre regioni in prima linea, non fanno distinzioni. A nessuno oggi sfugge però che guarire Mattia, sarebbe una formidabile iniezione di fiducia non solo per la scienza. Incalcolabile anche il valore economico, psicologico e politico di questa missione. «Per questo — dice Baldanti nel suo laboratorio — qui è in corso il più gigantesco sforzo messo in campo dall’Occidente contro questa infezione nuova. Ancora non la conosciamo e lei non conosce noi. Da qui nascono potenzialità della diffusione e potenza della paura. L’obbiettivo allora è raccogliere il maggior numero di dati accertabili e certificati, mettendoli a disposizione di tutto il mondo». Mattia resiste dietro una porta chiusa, in una saletta isolata delle terapie intensive. Sua moglie Valentina, pure infetta e ricoverata all’ospedale Sacco di Milano, tra un mese partorirà il loro primo figlio. I medici stanno curando anche i suoi genitori, prelevati da casa lunedì. Salvare quello che per la ricerca italiana resta il «paziente uno» non è «un imperativo morale» solo per restituirlo alla famiglia. Il punto cruciale è che fino ad oggi le vittime, nel nostro Paese, sono tutte anziane morte «con il coronavirus», ma già fragili per età e somma di patologie. Mattia invece, giovane, sano e sportivo, è a sorpresa anche il paziente più grave colpito solo «dal coronavirus». La sua resistenza per i medici marca «l’unico confine noto del Covid-19 tra la vita e la morte» al di fuori di Cina e Corea del Sud. A sette giorni dalla scoperta del contagio, «rimane sedato, incosciente e intubato perché non autonomo nella respirazione». «Ma il problema — dice Bruno — è che resta impossibile prevedere il decorso dell’infezione. Altri sono già guariti. Lui invece è stabile dal primo istante. L’imprevedibilità purtroppo è il marchio dei virus sconosciuti». Nuova anche la cura. «Testiamo un cocktail — dice Bruno — di farmaci usati per l’Hiv, per l’epatite C e per l’ebola. Nella miscela c’è la ribavirina. Esperimenti in vitro dimostrano che questo mix inibisce la crescita del virus. In Cina e in Corea del Sud è stato testato con successo anche sui pazienti». Centinaia, in una sola settimana, le scoperte di medici e ricercatori impegnati a dimostrare che «nella maggioranza dei casi non guariscono solo i contagiati in modo leggero, ma anche quelli più gravi». «Però il coronavirus — dice Baldanti — è democratico e si muove con le persone. Il suo movimento sulla terra così oggi è rapido e inarrestabile. Il fatto che il primo focolaio europeo sia esploso tra i dieci centri del Lodigiano è casuale, anche se la Lombardia è una delle regioni più densamente popolate e globalizzate del continente. Dare un’identità al “paziente zero” può spiegare una dinamica sociale, ma a noi preme circoscrivere l’epicentro del contagio e comprendere le sue dinamiche. Nelle ultime ore, dentro la zona rossa lodigiana, abbiamo isolato 20 ceppi autoctoni, tutti diversi. Finalmente possiamo studiare come e perché il virus distrugge determinate cellule, cominciare a sequenziare il suo patrimonio genetico». Al San Matteo, come al Sacco e allo Spallanzani di Roma, la medicina italiana non si carica sulle spalle solo la vita dei contagiati. Anche quella di chi è sano e, ormai è chiaro, una grossa fetta del destino economico del capitalismo contemporaneo. Il «grazie» del presidente Mattarella, espresso in privato, è già arrivato. «Ma noi — dice Bruno tornando al letto del “paziente uno” — restiamo qui perché ogni giorno il nostro dovere è curare più persone possibile nel modo migliore possibile. È un impegno eccezionale e non sappiamo quanto durerà questa epidemia. La gente deve sapere però che il nostro sforzo durerà fino a quando sarà necessario». I cosiddetti «eroi» normali di questa «missione non impossibile» esprimono un solo timore. «Vedere spegnersi Mattia — dicono — sarebbe un incubo. Ma cedere al protagonismo e dimenticare di remare tutti in silenzio e nella stessa direzione, sarebbe peggio. La sconfitta risulterebbe collettiva e irreparabile: lo spettro della pandemia dilagherebbe nel disastro del pandemonio».

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